Ossigeno #12

116 117 Domani. Le risposte sono scritte nel suolo Stefano Santangelo �ueste due tecniche di coltivazione, filosofie di cura del suolo, potrebbero generare a livello globale la nascita di milioni di nuove piccole fattorie e milioni di posti di lavoro, rigenerando ecosistemi compromessi, portando maggiori guadagni per gli agricoltori e producendo cibo sano, in un manifesto del futuro possibile che suona tanto utopistico e romantico quanto è in realtà fattibile e pragmatico. Riecheggia, per chi ha familiarità in questi progetti, l’eco del nome di un antenato delle tecniche di coltivazione controcorrente, rispetto all’agricoltura intensiva del ventesimo secolo, il cui nome non viene mai citato: Rudolph Steiner, padre della antroposofia e della agricoltura biodinamica. Come nella biodinamica steineriana, lo sguardo si volge alle tecniche agricole del passato e il centro della sua filosofia è il suolo, la sua rigenerazione e la sua cura. Per chi disperasse ora in quanto vittima dell’urbanizzazione, e pensasse che il grande assente della vita metropolitana sia il suolo, c’è la soluzione Detroit. Da città che si sostentava sulla monocoltura industriale dell’automobile, è ora modello di agricoltura urbana. Dal grande corpo dell’impero industriale in dissoluzione sono nati – per mano di chi non è potuto fuggire altrove: gli indigenti – millequattrocento micro-feudi tra fattorie e orti biologici riuniti nell’associazione Keep Growing, che difende con un esercito di ventimila volontari il baluardo della sovranità alimentare della città. Per citare quello che fu l’imperatore dell’ormai tramontata età dell’oro di Detroit, Henry Ford: «Se saremo capaci di avanzare insieme, il successo verrà da sé». I combattenti di Keep Growing sanno che l’agricoltura urbana non prenderà il posto di quella tradizionale, ma contano di affiancarla a quest’ultima e produrre cibo sufficiente a sfamare metà della popolazione. Dalla riconquista del suolo attraverso l’agricoltura a quella della sovranità, il passo è breve quanto corale. Manca un punto interrogativo, forse, al titolo di questo che è senza dubbio uno dei più importanti documentari degli ultimi anni a tema crisi climatica e del modello capitalista. Un punto interrogativo che potremo togliere solo tra vent’anni, e solo se avremo capito a fondo cosa volesse dire Charles Darwin quando affermava: «Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti». Domani (Demain), 118’, 2015 Regia: Cyril Dion e Mélanie Laurent Sceneggiatura: Cyril Dion Produttore: Bruno Levy www.fermedubec.com www.detroitagriculture.net Concepito e diretto dai francesi Cyril Dion e Mélanie Laurent nel 2015, il documentario Domani (Francia, 2015) è l’antidoto agli scenari apocalittici, totalizzanti e senza via d’uscita prodotti quotidianamente dai media come riflesso condizionato al suonare della campanella della crisi ambientale; input informativi che a volte hanno come unica conseguenza nello spettatore l’ansia caotica o la rassegnazione. C’è quello; e poi ci sono le reazioni positive, quelle della speranza, che ispirano al fare e al pianificare: quelle di Domani. Attraverso cinque capitoli (Agricoltura, Energia, Economia, Democrazia, Educazione) e in una sorta di versione moderna del Giro del mondo in ottanta giorni, Laurent e Dion intraprendono un viaggio che li porta, tra gli altri, in luoghi che vanno dal Regno Unito, all’India, a San Francisco, alla ricerca di alternative possibili – o meglio: alla dimostrazione che sono già qui, alcune da decenni. Parlare di futuro non è un’utopia, ma un cammino che durerà vent’anni o forse più, e che si spera non ci porterà al punto di partenza, come fu per il Phileas Fogg di Jules Verne. Forse mancante dello sviluppo di un concetto come capitolo a sé, quello della riduzione del consumo e del desiderio che lo provoca, Domani ci regala comunque degli esempi ispiratori su come economizzare l’uso del suolo in agricoltura per miniaturizzare le estensioni di terra strappata all’ecosistema naturale e aumentare la produzione per ettaro. In particolare, in Normandia, Charles e Perrine Hervé-Gruyer, agricoltori biologici, hanno avviato un progetto che va in senso contrario a quello dell’agricoltura industriale, la quale non può fare a meno di sfruttare le energie non rinnovabili e vasti appezzamenti di terreno, e che ha come conseguenza la distruzione e l’impoverimento del suolo. In otto anni la coppia ha trasformato un suolo che era al livello più basso di fertilità, un tappeto di sassi coperto da appena dieci centimetri di pessima terra, in un giardino lussureggiante, anche grazie alla rinuncia completa all’uso di macchinari alimentati da energie fossili. Un frutteto-giardino riproduce la foresta naturale, ma con protagoniste solo piante da frutto commestibili, un sistema completamente autonomo che fa a meno di irrigazioni e concimi. Con l’uso della permacultura, associando piante che come nell’ecosistema naturale vivono insieme in un sistema simbiotico, equilibrato e solo apparentemente caotico, sono arrivati a ottenere produzioni impensabili per l’agricoltura tradizionale: cinquantottomila euro, per dirlo nella lingua universale dell’economia. Un ricavato ottenuto dalla vendita di prodotti raccolti su una superficie di appena mille metri quadri, che è cioè ciò che normalmente si produce da un ettaro nell’agricoltura tradizionale da colture dello stesso tipo. Ciò che si vuole dimostrare è che se tutti applicassero l’agroecologia, e la cura del suolo che implica, la produzione duplicherebbe; e se si applicasse la permacultura, essa quadruplicherebbe.

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