Ossigeno #12

58 59 Il corpo e il riparo: diritti della terra e arte contemporanea. Conversazione con Carsten Höller Fabiola Triolo Io, per esempio, da Carsten Höller (Bruxelles, 1961, vive e lavora tra Stoccolma, Svezia e Biriwa, Ghana), ho imparato la lezione della concretezza. E mi ha stranito, motivo per cui so che la nostra conversazione mi rimarrà impressa, perché una dissonanza ti segna sempre molto più di una sdraiata, inerte consonanza. Tanto più nell’arte contemporanea, là dove fermamente credo nella potenza costruttiva della distorsione. Su una terra malata, perché la cultura possa farsi cura e permetterci finalmente di rinsavire, le grandi opere di arte contemporanea hanno il dovere di essere schegge impazzite. La dissonanza che mi ha stranito, conversando con Carsten Höller, è stata quella dell’avere avuto la fortuna di trovarmi di fronte a una reale autorità dell’arte contemporanea internazionale – terreno all’interno del quale molto, ma molto spesso, sport prediletto è il salto in alto della citazione più sofisticata, o il tiro al piattello a chi la spara meno comprensibile – e mentre io mi affannavo nelle mie acrobazie verbose, lui mi riportava gentilmente a terra, a quella stessa terra tema portante di questo numero di Ossigeno, e mettendo da parte roboanti citazioni ad effetto mi parlava di azioni concrete compiute attraverso la sua arte, per ascoltare e assecondare concretamente la voce della terra. Azioni compiute senza mai venire a patti con la compiacenza serpeggiante in quell’erba infestante che è l’artwashing – o, in questo caso, l’(e)art(h)washing – per la quale siamo circondati da parecchi sedicenti artisti che abbracciano gli alberi battendosi il petto per assicurarsi un riflettore non tanto su un suolo ferito a morte, in fondo che gliene frega, ma su sé stessi. (NdR: ricordate, in quell’affresco surreale e perfetto sulla cultura contemporanea italiana che è La grande bellezza di Paolo Sorrentino, la scena della performance dell’artista, nuda come mamma l’ha fatta, all’Acquedotto Claudio, che come da battage mediatico si dichiarava ispirata da “vibrazioni di natura extrasensoriale” salvo poi, di fronte a un Jep Gambardella spietato, non immaginare neanche lontanamente in che consistessero le suddette vibrazioni? Ecco, più Jep Gambardella per tutti) Permettetemi di portarvi un esempio di ciò che intendo: poiché Carsten Höller, prima di essere un artista, è laureato in Scienze Agrarie, con una tesi sulla comunicazione tra gli insetti e un dottorato in Entomologia, gli ho posto con particolare fierezza una domanda nella quale – per chiedergli quale fosse la sua attitudine, se ottimista o pessimista, rispetto alla difesa della terra attraverso l’arte – mi inerpicavo sulla metafora delle lucciole, la cui scomparsa venne raccontata da Pier Paolo Pasolini come ultimo crimine di fronte all’avanzata del capitalismo cieco, e di contro la loro flebile presenza fu descritta da Georges Didi-Huberman come residuale barlume di speranza. Il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, insomma. Eccovi la sua risposta. «Ho grande rispetto per entrambi, ma credo di essere più un tipo pratico. Mi interessa usare l'arte come un’arma di difesa, come un modo per fermare la distruzione. Ti faccio un esempio: c'è un posto in Ghana, chiamato Atewa Range, che è incredibile. In linea di principio sarebbe una zona protetta, una foresta su alcune alte colline, ma è incredibile perché ospita un'enorme quantità di specie che vivono lì. Insetti, piante, uccelli, persino mammiferi. È quello che viene comunemente definito un hotspot della biodiversità. Ma contiene anche bauxite in grandi quantità. E il Ghana è in debito con la Cina, perché il governo cinese ha prestato denaro che il Ghana non è in grado di restituire. E allora il punto è: saranno costretti a sacrificare questo posto per l’estrazione della bauxite, per immettere le entrate necessarie a ripagare il debito? Io penso che una questione del genere vada discussa su una scala decisamente più ampia rispetto a quella tra i soli Ghana e Cina. Atewa Range è patrimonio comune, e noi abbiamo il dovere di proteggerlo. �uindi, quello che ho proposto è molto semplice: metteremo lì una mia opera d'arte, una torre con due scivoli installati in precedenza in una mia mostra alla Hayward Gallery, a Londra, nel 2015. E poi faremo costruire una nuova torre insieme ad architetti ghanesi, come manifesto per dire: la natura forse è indifesa, perché non può parlare il linguaggio degli uomini; ma un'opera d'arte può farlo, può parlare quella lingua e può dire con forza “Io sono qui, e qui voglio restare”. E allora, se vuoi distruggere questo posto, devi distruggere anche l'opera d'arte che si trova in mezzo a questo campo minerario di bauxite, e che penso gli conferisca una dimensione diversa. Non sono a conoscenza di alcuna opera d'arte che sia mai stata utilizzata per proteggere un luogo di grande valore, in termini di biodiversità». «�uindi – conclude Höller – penso che in questi casi occorra che noi diventiamo pratici. Dobbiamo parlare di cose pratiche perché altrimenti, come è ormai chiaro, ci troveremo molto presto in grossi guai. Con tutto il più grande rispetto, né Huberman né Pasolini ci possono aiutare in questo momento. Dobbiamo diventare pratici».

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