Ossigeno #12

60 61 (NdR: ma allora è davvero possibile che l’arte e la cultura rappresentino l’ultima linea di difesa dell’umanità. A confermarmelo è stato, concretamente, un combattente pluridecorato quale è Carsten Höller) Atti artistici dalla risonanza enormemente più potente come questo, nella difesa concreta della terra, non sono nuovi a Carsten Höller. È Giulio di Gropello, amministratore delegato di Carma Innovative Organic Farmer – progetto carbon zero nato nel 2000 nella splendida valle di Civita di Bagnoregio, impegnato a produrre olii evo di alta gamma attraverso il rispetto verso il suolo connaturato a una tecnica come quella della permacultura – a raccontarmi che, in seno ai festeggiamenti per i loro primi venti anni, Carma ha invitato Carsten Höller, assieme ad Armin Linke e a Norma Jeane, a produrre opere d’arte esclusive il cui ricavo venisse interamente devoluto a ONG impegnate nella protezione della terra. I proventi dei division paintings che portano la firma di Carsten Höller - Division Square Small (White Lines on Cobalt Green Background), 2020, ed. di 20 + 3 PA - sono stati destinati dall’artista alla preservazione della foresta di Nyambe Bepo, in Ghana. Piccole opere, quadrati di 30 x 30 cm, capaci di mettere in atto una rivoluzione, proprio come quella piccola opera che si è fatta radice dell’immaginario fertile di Carsten Höller. «Il bello dell'arte è che può scioccarti, che puoi guardare qualcosa per la quale pensi “Ma allora è davvero possibile fare qualcosa del genere?”. E non deve essere necessariamente una cosa imponente. Può anche essere qualcosa di estremamente semplice. Sono stato scienziato fino al 1993, ma desideravo diventare artista già dal 1985, periodo del conseguimento della mia laurea. Sapevo che ci sarebbero voluti anni per portare avanti la la mia formazione, perché non ho mai frequentato una scuola d'arte. �uindi non potevo in nessun modo proclamarmi artista, sarebbe stato a dir poco ridicolo. Avevo bisogno di sapere di cosa si trattasse. Così andavo a vedere quante più mostre possibili, ritrovandomi un giorno di fronte a questo dipinto di Sigmar Polke, che in realtà non rientrava affatto nella tipicità della pittura di Polke. Non era molto grande, sai, largo più o meno 60 centimetri. Era una superficie rosa con un angolo dipinto di nero. E tu pensi, “Ok”. Ma il titolo era: Esseri Superiori hanno ordinato: dipingi di nero l'angolo in basso a sinistra! �uesto è tutto. E allora pensi anche: “Ma cosa intendeva con questo? Da dove può arrivare questo bisogno di avere un angolo nero?”. Non ha alcun senso. E ti dà la possibilità di immaginare qualcos’altro, qualcosa fuori dall’ordinario, fuori, forse, da ciò che la nostra mente abitualmente intende. Perché pensiamo sempre che la nostra mente possa comprendere tutto, ma è molto antropocentrico vederla in questo modo. La mente è solo uno strumento, ti permette di fare solo certe cose, di assolvere solo a certe funzioni. Penso che per noi sia ancora un tabù elaborare il fatto che c'è un intero universo, là fuori, che la nostra mente non può comprendere, nonostante tutto il suo apparato filosofico, scientifico e quant'altro. La mente ha i suoi limiti, ed è questa è la cosa fondamentale da capire». L’arte contemporanea è dunque chiamata anche a metterci nelle condizioni di fare i conti con i nostri limiti, non limitandosi a questo: l’arte contemporanea è capace di innescare in noi un dubbio, un salvifico dubbio. Carsten Höller, il cui studio è stato spesso definito “laboratorio del dubbio” (tra l’altro, è del 2016 la sua imponente monografica al Pirelli HangarBicocca battezzata Doubt come fosse una vera e propria dichiarazione di intenti), risponde a questa chiamata allestendo esperienze di alterazione della percezione attraverso un’estetica viva, ludica, colorata, ultra-satura, ultra-pop, ultraterrena a partire da quella terra di cui è scienziato, per permetterci di vacillare, di rimetterci in discussione come specie tra le specie. Riconoscere che abbiamo dei limiti richiede un non più rinviabile cambio di paradigma: dall’antropocentrismo all’ecocentrismo. Da noi alla terra. Semplicemente, crudamente, perché fin qui è chiaro che abbiamo fallito, e credo sia questo il tabù supremo da ammettere per quanti di noi – la stragrande maggioranza, oserei dire, annusando l’aria mondiale – hanno pensato bene di fondare chiese sul proprio ombelico. Allora, in seno al nostro cammino sulla difesa dei diritti universali da parte dell’arte contemporanea, laddove il corpo violato e indifeso è quello della terra, occorrerebbe arricchire il vocabolario dei diritti: non soltanto il diritto alla terra ma, anche e altrettanto, il diritto della terra. �uel florilegio di urgenze rappresentato dall’Agenda ONU 2030 sancisce, all’Obiettivo 15: «Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare e invertire il degrado del suolo, arrestare la perdita di biodiversità». Ne consegue che c’è un altro preciso, enorme tabù con il quale dobbiamo fare i conti. Carsten Höller l’ha fatto più volte (Killing Children, 1990-1994), nel modo che meglio padroneggia, quello della tematizzazione attraverso lo shock salvifico dell’arte. «Non siamo che una specie tra tutte le altre, neanche la più numerosa, ma che ha un enorme successo nel riprodursi e colonizzare tutti i tipi di habitat su tutta la terra, praticamente ovunque, con i metodi che abbiamo messo a punto. È questo il motivo principale per cui siamo noi la radice dei nostri stessi problemi, perché continuiamo a funzionare seguendo la logica della sola riproduzione della specie, assecondando automaticamente i nostri tratti evolutivi acquisiti, senza essere in grado di analizzarli e superarli. Ci troviamo in una sorta di situazione dilemmatica: sappiamo che siamo in un momento problematico a causa del nostro stesso comportamento ma, allo stesso tempo, lo ignoriamo, perché continuiamo a fare ciò a cui siamo stati inconsciamente educati. Invece dovremmo seriamente pensare a quale effetto devastante ha ogni essere umano in termini di sovraconsumo di risorse, soprattutto nel mondo occidentale. Voglio dire: se guidi un’auto devi prendere la patente, e c'è un motivo, perché guiderai in mezzo ad altre persone, e devi obbedire alle stesse regole degli altri nel traffico, altrimenti genereresti caos e pericolo. Io penso che un identico ragionamento valga nel fare figli. È stato Terence McKenna a dire che nella società dei consumi – in Occidente e in parti dell'Asia – se solo concordassimo una politica di un figlio per famiglia, ridurremmo della metà non soltanto il numero di persone, ma soprattutto l’uso delle risorse entro vent’anni. Credimi, è drammatico. Continuiamo a barcollare come se fossimo mezzi ciechi per tenere fede alla nostra eredità evolutiva, ma allo stesso tempo la nostra mente cosciente si rende conto che non possiamo andare avanti così, e non solo per la nostra specie, in termini di perdita di biodiversità. Dobbiamo parlarne. È un tabù evolutivo, ma dobbiamo parlarne». �ui è il momento in cui io, colta da un certo furor, gli racconto delle infami politiche del nostro attuale governo, che pone la crescita della natalità come uno dei primi obiettivi decretati a tavolino per il nostro malcapitato Paese. E qui è dove Carsten Höller non si meraviglia e non si indigna, ma preferisce dirmi che cosa concretamente ha fatto per togliere il velo al tabù: «Lo fanno tutti, perché hanno il solo obiettivo della crescita dell’economia, così secondo loro le persone hanno soldi in tasca, i governanti non perdono consenso e tutti sono felici. Ma non è così. Forse si può far crescere l'economia, ma non è necessario incrementare il numero di bambini che nascono. Ci sono altri modi per raggiungere quell’obiettivo». (NdR: v. Pier Paolo Pasolini e la sua distinzione tra progresso e cieco sviluppo; e, in tempi più recenti, v. Kate Raworth e il suo schema di Doughnut Economy, che contrappone la prosperità alla mera crescita) «Non è possibile – continua Carsten Höller – che si debba aumentare il numero delle persone che nascono, per il solo fatto che sono consumatori. Se, in merito alla terra, dobbiamo parlare di una necessaria riduzione dei consumi, allora dobbiamo parlare anche di una necessaria riduzione dei consumatori. Ma non ne parla quasi nessuno. Così, più o meno all’inizio degli anni ‘90, le mie prime opere furono concepite come trappole per bambini. L'idea era quella di introdurre questo tema attraverso la lingua scioccante dell'arte di cui ti parlavo prima, per mettere in luce la falsa necessità della riproduzione e per capire se questo tema potesse essere trattato proponendo un altro punto di vista. So che queste opere – come anche un successivo film su dieci differenti metodi di cattura dei bambini (Jenny, 1992) – erano piene di umorismo nero, ma l’ho fatto al preciso scopo di dare un punto di origine alla questione. In un'altra prospettiva, quella di te da bambino, questo sentire è affine al momento in cui inizi a realizzare che esisti, che sei nel mondo, e il mondo è così grande e così difficile da capire che cominci a formulare anche molti pensieri oscuri. Sono quasi certo che ci siamo passati tutti». «È brutale», dirà qualcuno. È arte contemporanea, ha il dovere di esserlo, perché «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» (Theodor W. Adorno, Critica della cultura e società, 1949), perché il movimento dell’arte contemporanea è lo strattone di chi ti deve risvegliare, perché l’opera d’arte contemporanea è un’opera senza paura, brutale, sgraziata e disgraziata, ma che proprio in virtù di questo suo disgraziato essere contiene la sua costruttiva ragione di essere: quella di farci spalancare occhi e coscienze. Alla radice della parola “brutale” applicata all’arte contemporanea c’è il movimento dell’Art Brut, battezzato nel 1945 da Jean Dubuffet e vivificato da opere d’arte create «dalla solitudine e da impulsi creativi puri e autentici – dove le preoccupazioni della concorrenza, l’acclamazione e la promozione sociale non interferiscono» (Jean Dubuffet, Place à l’incivisme, 1967). L’arte delle persone completamente digiune di indottrinamenti accademici, di quelle al margine, dei reietti, dei galeotti in carcere, dei pazzi in manicomio, spontanea e feroce, estetica priva di ogni anestetico. Dall’Art Brut prenderà avvio il Brutalismo come corrente architettonica che fa della sua materia il béton brut, il cemento a vista di Le Corbusier. E dall’architettura brutalista prenderà ispirazione la cucina brutalista, che fa della sua materia i prodotti in purezza della terra. Carsten Höller, uomo di indole squisitamente gentile, ha fatto del risvolto brutale uno dei suoi stilemi artistici fin dal primo progetto, Killing Children, per sensibilizzare sul sovraconsumo di risorse della terra. (NdR: Brutale + Concreto: in inglese, “cemento” – materia dell’architettura brutalista – si dice “concrete”)

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