64 65 E oggi si chiama Brutalisten il locale, a metà strada tra il ristorante e l’opera d’arte performativa, che Carsten Höller ha da poco più di un anno inaugurato a Stoccolma, in collaborazione con lo chef Stefan Eriksson, nelle prossimità del cinema dove una volta debuttavano i film di Ingmar Bergman. Ristorante, perché funziona come ogni altro locale denominato tale; opera d’arte «perché ti porta su un terreno inesplorato, basato su un insieme di regole restrittive, che possono evocare un certo disagio primordiale, che induce un piacere intenso e specifico qual è spesso quello che ritrovo nella buona arte». In effetti, nel Brutalist Kitchen Manifesto in tredici punti presente su www.brutalisten.com/manifesto, il primo punto dichiara che «La cucina brutalista è un dogma all’interno del quale si applicano regole ben precise»: Brutalisten serve infatti piatti “brutalisti ortodossi”, fatti con un solo ingrediente; piatti “brutalisti”, composti da un ingrediente + sale e acqua; piatti “semi-brutalisti”, realizzati con due ingredienti. Leggo ancora dal Manifesto: «Noi nasciamo brutalisti nel nutrirci, perché il latte materno è essenzialmente brutalista». «Ogni decorazione sui piatti va evitata». «La cucina brutalista è un impegno alla purezza». Un atto radicale, un recupero delle radici, e le radici sono fondamentali per contenere la terra, per tutelarla e proteggerci. �uando Carsten Höller mi parla di Brutalisten, credetemi, gli brillano gli occhi. «In linea di principio, è consentito utilizzare solo acqua e sale. Non è consentito nemmeno l'olio d'oliva, né alcun tipo di grasso, né alcun tipo di spezia. E soprattutto, non è permesso combinare ingredienti. Là fuori siamo pieni di piatti combinati; tutto molto bello, per carità, ma a me interessa di più l'idea di lavorare su un solo ingrediente e aggiungere il meno possibile, perché se ti concentri su un solo elemento riesci a ottenere il suo gusto autentico. Prendi l’insalata, per esempio: nessuno assaggia mai le radici dell'insalata, o l'olio che si ricava dai suoi semi, o dai suoi fiori. Per noi insalata significa quasi esclusivamente foglie, quindi è interessante pensare di ottenere un condimento mantenendo questi vincoli. Non puoi usare succo di limone e olio d'oliva per preparare una vinaigrette, non funziona così. E allora cosa fai? Provi a fare fermentare alcune foglie e a preparare dell'acqua per l'insalata. Provi a utilizzarne le radici. �uello che ci interessa è un approccio più complesso al prodotto, che ne comprenda e ne esalti ogni differente parte. E poi, puoi sia cucinarlo che servirlo crudo, semplice e diretto, il che è molto brutalista». «La nostra maggiore cura è quella di avere ottimi prodotti e talvolta – in quella che per noi rappresenta la migliore delle ipotesi – non facciamo assolutamente nulla. Controlliamo solo la temperatura. Abbiamo avuto delle rape, all'inizio della stagione: erano talmente eccellenti, quelle piccole rape bianche, che l'unica cosa che abbiamo fatto è stata servirle sul ghiaccio, sistemandocele poco prima così non sarebbero state troppo fredde, solo appena un po', perché qualsiasi tipo di cottura le avrebbe alterate. Io lo trovo fantastico». In questo magnificat del prodotto della terra in purezza c’è il rispetto che riempie i rituali. Luogo di culto è la terra stessa, per difenderla, per proteggerla, per custodirne la diversità. C’è, nel Brutalist Kitchen Manifesto, un ulteriore punto che dice: «L’uso di ingredienti trascurati, sottovalutati, dimenticati, difficili da reperire, rari o più genericamente scartati è caratteristico della cucina brutalista». C’è un altro manifesto che parla di recupero della marginalità come salvezza per la diversità, anch’esso ad opera di un intellettuale che ha una formazione in Scienze Agrarie. È il Manifesto del Terzo Paesaggio (2004), di Gilles Clément: «Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana, subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, sui quali è difficile posare un nome. �uest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra, né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati delle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata». Il Terzo Paesaggio non è l’infinito e non è il finito; è l’indefinito, l’incompiuto, l’imperfetto, l’indeciso, l’insensato, come quel frutto della terra trascurato e poi curato da Brutalisten, come qualsiasi terrain vague dove la mancanza di definizione è moltiplicazione di potenziale. Stop making sense (Talking Heads, 1984) come monito, perché probabilmente una delle piaghe dell’umanità è l’affanno del volere affibbiare a tutti i costi un senso e un nome alle cose, in modo da poterle incasellare e togliersi così di dosso il disagio dell’avere a che fare con la diversità. Carsten Höller non teme il nonsense, tutt’altro, dal momento che lo elegge come simbolo della sua arte, e in una forma ben precisa: «Il fungo. Faccio grande uso di funghi. Penso che siano perfettamente rappresentativi della mia arte, nel senso che sono qualcosa di esteticamente bello, ma quasi del tutto insensato. Ed è questo che ho sempre trovato così interessante nei funghi: che spesso non hanno alcun senso. Perché hanno queste sembianze – a volte magistralmente mimetizzati, altre volte talmente vistosi da poterli individuare anche da lontano? C’è da dire che quelli che chiamiamo funghi sono, in realtà, i corpi fruttiferi del micelio, che noi non riusciamo a distinguere con chiarezza se non guardandolo molto da vicino. Allora, se possiamo parlare di funzione per questi corpi fruttiferi, potrebbe essere soltanto quella di sollevare le spore dal terreno, di uscire dall’oscurità, di andare verso la luce. Spore prodotte a milioni, e tuttavia trasportate dal vento o da qualsiasi altro agente al di fuori del controllo del fungo. Di conseguenza il comportamento del fungo sembra a noi privo di senso, neanche lontanamente paragonabile alla chiara intenzionalità di un fiore, ad esempio, che vuole attirare insetti per garantire la sua impollinazione. A parte alcuni di loro, come i tartufi e i satirioni, la maggior parte dei funghi ci sembrano dunque totalmente nonsense, solo splendidi esempi di qualcosa che si è evoluto. È quanto di più simile ritrovo, rispetto all’essere un artista». In effetti il fungo, elemento rappresentativo anche di quel suolo oggetto degli studi di Carsten Höller da scienziato, è realmente sorprendente. Per quanto il suo comportamento non abbia un senso e una funzione specifica al di fuori di quella della sua stessa sopravvivenza, lo switch di paradigma da antropocentrico a ecocentrico per difendere il suolo, e di conseguenza la nostra sopravvivenza, trova giustificazione anche in una superiorità del fungo dal punto di vista dell’adattabilità: in Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (2021), l’antropologa e femminista Anna L. Tsing ha seguito il commercio dei funghi Matsutake, che crescono spontaneamente su suoli depredati dal dissesto ambientale come fu quello, devastato e raso al suolo, della città di Hiroshima nel 1945, dove la prima forma di vita a riemergere fu proprio questa specie. La stessa applicazione del micelio in campi distanti dalla pura botanica si muove nella difesa dei diritti della terra: in architettura, la tecnologa dei materiali Mae-ling Lokko lo ha innestato su rifiuti organici, favorendo la nascita di un collante isolante che permette ai rifiuti di solidificarsi ed essere utilizzati come mattoni a base biologica; nel design, le calzature realizzate da Kristel Peters sono prodotte, in assenza di emissioni di carbonio, con quella che è stata denominata “pelle di funghi”, materiale ricavato dal micelio e simile alla pelle di vitello; nella musica basta fare il nome di John Cage, e di quella rivoluzione fondata sul silenzio che fu la composizione in tre movimenti 4’33’’ (1952), per scoprire che fu un grande micologo, la cui passione fu in più occasioni associata dall’artista alla sua ricerca sonora, come nel caso della performance Mushrooms et Variationes (1985) per sensibilizzare sulla necessità di ridare voce alla terra. Nell’opera omnia di Carsten Höller il fungo ha realmente scavalcato i confini dell’arte per farsi icona pop su scala internazionale. (NdR: Milano, Fondazione Prada, mia figlia e io in ascensore. Salgono due ragazze che brandiscono lo smartphone a mo’ di scimitarra. «Scusa, sai dove sono i funghi?» «Al nono piano» rispondo sorridendo, perché è lì che si trova l’instagrammatissima installazione permanente di Carsten Höller Upside Down Mushroom Room, ma devo ammettere – vergognandomi anche un po’ di un vago rigurgito di radicalismo chic, poi soffocato eh – che la voglia di rispondere «Nei boschi» è stata quasi incontenibile) Nello specifico, Upside Down Mushroom Room (2000) è l’esperienza allestita da Höller all’interno della quale, dopo aver percorso uno stretto corridoio nel buio più pesto con la sola agevolazione di un corrimano cui affidarsi come guida, ci si ritrova abbacinati in una sala che fa da habitat artificiale a giganteschi funghi appesi al soffitto e capovolti. Lo straniamento inizialmente percepito è la messa in atto di quell’Unheimliche di freudiana memoria, quel senso di perturbamento dato dal conflitto interno tra familiare ed estraneo, perché quei funghi sono esattamente quelli che ignari, e col gambo ben piantato a terra, siamo soliti disegnare da bambini – la casetta dei Puffi, tanto per capirci (o il feticcio nerd Toad di Super Mario Bros.). Ma quella specie è l’Amanita muscaria, confidenzialmente Ovolo Malefico per il suo effetto velenoso e allucinogeno, il cui utilizzo è attestato fin da alcune incisioni rupestri preistoriche ed è tuttora impiegato in riti sciamanici collettivi, principalmente in Siberia. L’Amanita muscaria è la specie maggiormente, scientemente impiegata e riprodotta da Carsten Höller come persona doppiamente informata dei fatti: da scienziato della terra, perché consapevole delle sue proprietà e del suo utilizzo nella storia; da artista, perché altrettanto consapevole della potenza immaginifica di cui è capace un simbolo. Nel 2010, alla Hamburger Bahnhof di Berlino, Soma – nome dell’estratto di Amanita muscaria diffuso dai nomadi vedici dal II millennio a.C. che, secondo quanto tramandato, era capace di avvicinare al divino – fu il tableau vivant all’interno del quale dodici renne (che dell’Amanita muscaria si cibano abitualmente), dodici canarini, quattro topi e due mosche si muovevano disinvolti all’interno della sala espositiva di un tempio dell’arte contemporanea internazionale – alcuni, in verità, più disinvolti degli altri visto che a metà di loro, non dichiarando quali, veniva somministrata la Soma due volte al giorno. Scienza e arte, Bruno Latour Eugène Ionesco e David Lynch, esperimento di laboratorio e visione psichedelica.
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