Ossigeno #12

68 69 Psichedelia, appunto. È questo che, dal punto di vista della costruzione estetica, ho sempre rintracciato nelle opere di Carsten Höller, e che ritrovo in termini di etica – anche in rapporto alla difesa del suolo – nella sua costante attenzione, indagine e scansione dei limiti connaturati alla mente e alla percezione. Parlando di limiti della mente, in Il cibo degli dei. Alla ricerca del vero Albero della Conoscenza (1992), uno dei padri della controcultura psichedelica, Terence McKenna (già citato qui da Höller in seno al rapporto tra sovraconsumo di risorse e sovraffollamento della terra), sistematizza il suo pensiero indagando tutti gli organismi vegetali psicoattivi, tra cui l’Amanita muscaria, rendendoli viatico per la propria evoluzione spirituale, purché non aggrediscano il cervello e non siano ad esso estranei, cioè difficili da metabolizzare, come le droghe sintetiche e come alcool, tabacco, tè, caffè, zucchero, cacao, implementati per l’esecuzione dei lavori alienanti ereditati dalla Rivoluzione Industriale, e come la televisione, che McKenna definisce “droga elettronica”, funzionale alle civiltà del dominio per il controllo delle masse: «Abbiamo svenduto la dimensione spirituale della natura per il saccheggio delle sue risorse», scrisse McKenna. Dalla saggistica psichedelica (e da Aldous Huxley e i suoi esperimenti con il peyote; alzi la mano chi di noi, in gioventù, non ha declamato almeno una volta citazioni tratte dal suo Le porte della percezione del 1954, perché sono quasi certa che ognuno di noi abbia avuto almeno una fase hippie), discende direttamente un libro come La botanica del desiderio. Il mondo visto dalle piante (2001) di Michael Pollan, che descrive la capacità della cannabis di attutire i limiti che fanno da filtro tra noi e il mondo, permettendo il ritorno di un sentimento bambino come lo stupore; dal suo profondo rispetto per le piante come senzienti deriva inoltre, portato all’eccellenza, la scienza del padre della Neurobiologia Vegetale Stefano Mancuso, già ospite di Ossigeno 10 e compagno di Carsten Höller a Palazzo Strozzi per The Florence Experiment (2018), atto a misurare il rapporto empatico che può instaurarsi tra l’essere umano e la pianta. La controcultura psichedelica, dalla musica – con i Velvet Underground, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, Le Stelle di Mario Schifano, gli stessi primi Beatles, i Pink Floyd, The Doors – al cinema (con capolavori come Il colore del melograno di Sergej Paradžanov nel 1969, Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni nel 1970, la Salomé di Carmelo Bene del 1972 o La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky nel 1973), ha saputo produrre immagini esteticamente potentissime, essendo forse una tra le più coinvolte nel ridare centralità al suolo, al punto che oggi si parla di Rinascimento Psichedelico nella capacità, figlia dello Chtulucene (2016) di Donna Haraway e della Sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico (2020) di Bruno Latour, di immaginare nuovi ecosistemi, fondati sull’ecocentrismo e necessari per sopravvivere su una terra che abbiamo colpevolmente infettato. Carsten Höller, insieme ad altri artisti come Pierre Huyghe e Philippe Parreno con le loro estetiche allucinate, vivide ed ecocentriche, ne fanno certamente parte; forse, però, il Rinascimento Psichedelico porta con sé una nuova consapevolezza, figlia di una disillusione rispetto alla presunta onnipotenza dell’essere umano: come dire, possiamo ed è necessario immaginare dei mondi alternativi, ma la mente ha i suoi limiti, altroché. «La psichedelia è molto interessante – mi dice Höller – perché ti mostra come l'espansione della mente agisca in modo particolare e come sia possibile fare davvero molto, con essa. Ma penso anche all'altra cosa che ti ho detto prima: è ancora più interessante quando realizzi che puoi arrivare molto lontano anche con l’aiuto di sostanze psichedeliche, ma c’è sempre un punto oltre il quale non riuscirai ad andare. È in quel momento che avrai la reale percezione dei tuoi limiti. Voglio dire, la psichedelia ha a che fare tanto con il limite quanto con l'estensione della mente, ma penso che oggi la parte relativa alla limitazione sia ancora più interessante, perché ti mostra che la tua mente non è altro che uno strumento, ed è assolutamente sicuro che ci sia molto di più, là fuori, che non possiamo immaginare, che non riusciamo nemmeno a pensare. Capisci cosa voglio dire?». Capisco, certo, capisco. Concretezza. Immaginazione al potere, va bene, ma con i piedi ben piantati per terra, soprattutto nel momento in cui la questione cruciale è la difesa dei diritti della terra da parte dell’arte. D’altronde stiamo parlando di Carsten Höller, uomo in cui coesistono due attitudini (coesistono, non si fondono, questo è fondamentale, come – per la preservazione della biodiversità sulla terra – è fondamentale la coesistenza, non l’ibridazione): lo scienziato e l’artista. Fatta nostra la parabola di Galileo, che meditava sulla posizione e sulla forma della terra innescando una rivoluzione epocale, ecocentrica in nuce, la scienza è chiamata a sollevare rivoluzioni culturali che sappiano investire l’umanità nella sua presunzione di onnipotenza. Esattamente come l’arte. Entrambe hanno il dovere di coltivare il dubbio. Carsten Höller ha inizialmente indagato il suolo come scienziato, studiando il comportamento degli insetti nell’ambiente; ora lo fa come artista, studiando l’essere umano come essere vivente tra gli altri viventi sulla terra. E se la pratica di Carsten Höller come scienziato era quella dell’esperimento, la pratica di Carsten Höller come artista si fonda sull’allestimento di un’esperienza. (NdR: anche al Brutalisten l’esperienza è fondamentale, ma ciò che la differenzia dall’esperimento è un altro tratto fondamentale. Leggo ancora dal Manifesto: «È possibile servire più piatti contemporaneamente. Colui che mangia può decidere di combinare ingredienti di diversi piatti. Invece di uno chef che impone per ogni porzione cosa dovrebbe essere combinato e in quale misura, è colui che mangia a prendere questo tipo di decisione». Ecco: al di là della comune matrice etimologica, esperimento ed esperienza si differenziano per il loro diverso grado di libertà) Un’esperienza che Höller allestisce secondo un rigoroso sistema sincronico: osservazione / interpretazione / interazione, sviluppate tra l’opera e chi la fruisce. Penso soprattutto alle imponenti installazioni collocate in spazi aperti: scivoli mastodontici come The Slide (2016) presso l'ArcelorMittal Orbit su invito di Anish Kapoor, e ottovolanti rallentati allo stremo, come RB Ride (2007) a San Severino Lucano, nel Parco del Pollino. Opere fruibili da chiunque che danno alla corrente artistica della Land Art – la più esplicita nella storia dell’arte nel rendere protagonista la terra, ma che all’origine, negli anni ’60, rimaneva a mio avviso piuttosto ripiegata su se stessa – un nuovo respiro, finalmente vivo e vivibile, finalmente ecocentrico. Nelle esperienze allestite da Carsten Höller la componente ludica è intensa, ma da raffinato, elegantissimo intellettuale quale è, Höller sa che – da Johan Huizinga con il suo Homo Ludens (1938), a Jean Piaget, a Jerome Bruner, a Maria Montessori – il gioco è fondamentale, nell’avanzamento cognitivo. L’arte come giostra per permettere che l’esperienza ludica si faccia coscienza, che l’estetica si ricongiunga all’etica disinnescando la cosmetica. Arte come esperienza, che ha la stessa radice etimologica di esperimento, come se il background scientifico di Carsten Höller agisse da codice sorgente, in una sorta di processo osmotico tra terra e arte. Tuttavia, mi spiega Höller, i tratti comuni tra laboratorio e atelier si fermano qui: « Spesso mi è stato chiesto – anzi, spesso mi è stato detto con tono piuttosto assertivo – che c’è una somiglianza tra arte e scienza: “In entrambi i casi si parte dalla creatività”, e altre affermazioni di questo tipo. Io penso che quest’idea sia completamente sbagliata. Ciò che chiamiamo arte contemporanea è un linguaggio molto specifico, che non è basato su qualcosa che si propone di scoprire il mondo come farebbe uno scienziato. �uando ero uno scienziato, rimanevo sempre sorpreso dal modo in cui otteniamo risultati, ossia attraverso l'esclusione. Fondamentalmente siamo immersi nel rumore, rumore ovunque, e quando vai in laboratorio lo fai con lo scopo preciso di escludere il rumore per favorire la concentrazione – ecco, il laboratorio è in qualche modo simile, in particolare, al white cube espositivo. Ma poi gli scienziati vanno oltre, perché vogliono studiare l'influenza di un determinato fattore. Sai, quando si porta avanti uno studio clinico – volendo indagare, ad esempio, se la temperatura influenza l'esito di un esperimento – sei solito mantenere tutto uguale tranne un fattore, quello della temperatura, perché così potrai misurarne meglio gli effetti. E questo è un processo che si basa necessariamente sull'esclusione. Tuttavia, alla fine, non sarai nemmeno certo che i risultati siano del tutto effettivi nel momento in cui li andrai ad applicare immettendoli di nuovo nel mondo, con tutto quel rumore, perché la temperatura può essere influenzata da altri fattori che non hai indagato, e quindi possono sopravvenire effetti incrociati. E c'è anche il fatto che tu, come ricercatore, ti sei tenuto fuori da tutto questo per restare il più obiettivo possibile, ma sono emersi risvolti interessanti quando sono stati presi in esame alcuni esperimenti condotti con i topi, se svolti da uomini o da donne, perché in realtà sono emerse consistenti differenze nei risultati. �uindi, cosa interessante, il metodo scientifico è un ottimo modo per capire perché tende a semplificare, ma è molto difficile metterlo in relazione con il mondo. L’effetto della temperatura da un lato, o un’opera sulla parete di un white cube dall’altro, non sono poi così significativi, perché mostrano più i limiti della mente, ancora una volta, perché riguardano ciò che tu ancora puoi capire. Ma il rumore è fuori dalla nostra portata». Gli domando allora se sia il rumore, il terreno dell’arte: «Sì, penso di sì. Rumore che diventa musica, anche distorta, volutamente distorta. E anche per la musica – e per la scienza, per la letteratura, per l’arte, per l'architettura e così via – si può dire che funzionino come lo sport: hai delle regole di gioco ma poi tutto dipende da come giochi, pur trattandosi di campi da gioco diversi. La domanda che mi pongo più spesso, però, è questa: a cos'altro potremmo giocare? Cosa non abbiamo ancora inventato? Perché l'arte è interessante, certo, ma il bello dell'arte è che in linea di principio potrebbe essere terreno per altre forme che non sono ancora emerse. Abbiamo le nostre forme canoniche di espressione culturale, ognuna con i suoi diversi linguaggi, ma potrebbero darsene altre che ancora non conosciamo? Per quale motivo ci limitiamo a creare esclusivamente arte, o scienza, o sport, o forme di culto, seguendo schemi prestabiliti? Forse c'è qualcos'altro. È questo ciò che trovo interessante nell'arte: che puoi usarla come situazione-tipo, puoi testare come funziona con persone che vengono lì perché vogliono vedere, per esempio, una mostra, possono provare delle cose ed è come un esperimento, ma senza scienziati che registrano i dati. Ecco, trovo interessante l’opera d’arte come proposta sociale, l’arte come linguaggio, quindi io come artista sono un formulatore di proposte, ma non ho più intenzione di rinchiudermi come lo scienziato in uno spazio piccolo e

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