70 71 controllato, come facevo prima nella mia vita. Direi che sto lavorando sul fare proposte attraverso un linguaggio, quello dell’arte, che è decisamente potente, però dobbiamo smetterla di veicolarlo attraverso tutti questi dipinti, e sculture, e così via. Trovo terribile quello che si sta portando avanti. Ho un vero problema con questo. È così reazionario». Così, rispetto all’attenzione mondiale che sembrerebbe esserci in questo momento verso l’arte contemporanea africana – dall’ultima Biennale di Architettura di Venezia, la cui curatrice è stata l’architetta scozzese con cittadinanza ghanese Lesley Lokko, ai numerosi passaggi espositivi di artisti africani del calibro di Pascale Marthine Tayou, Zanele Muholi, Yinka Shonibare – Carsten Höller mi apre gli occhi di fronte all’ennesimo atteggiamento occidentalocentrico vestito a festa: «Fare arte significa anche un certo modo di esporla, di renderla accessibile, e ancora una volta è come se, anche rispetto al riflettore attuale verso l’arte contemporanea africana, stessimo imponendo una certa forma al mondo intero, ed è ancora una volta una prospettiva occidentale. Non riesco ancora a vedere una concreta apertura occidentale rispetto alle modalità che l’Africa ha nel presentare l’arte. �uelli che ci danno l’idea di essere atti di apertura non sono altro che scatoloni occidentali che contengono arte africana, e non è così che dovrebbe essere. Dovremmo abbracciare non solo la bellezza delle differenze di contenuto, ma anche di contenitore». Allora: concreto, costruttivo, nel formulare nella lingua dell’arte proposte pratiche e utili alla difesa del suolo. Brutale, perturbante, per tentare di svegliare rispetto a temi urgenti per la terra, ma sotto silenzio in quanto tabù. C’è un altro tratto che, nel conversare con Carsten Höller, mi appare ora evidente: stravagante, extra-vagans, colui che si muove al di fuori dei perimetri imposti. È stravagante la sua estetica, assolutamente eccentrica e immediatamente riconoscibile, ed è extra-vagans la sua etica, sempre in cammino, sempre alla ricerca di nuove terre da esplorare, sempre volta a smascherare un limite, sia esso un confine territoriale o un tabù mentale. Sublime, sub limen, sulla soglia, votato al nomadismo, ed essere nomadi significa aprirsi all’appartenenza a ogni terra e a nessun possesso, rispecchiarsi in ogni suolo visitato, rigettare ogni confine, spargere semi. Carsten Höller, che ha fatto della sua casa sia la Svezia che il Ghana, è nato in Belgio, da genitori tedeschi, e come artista internazionale continua a spargere semi di arte contemporanea, come atti concreti e come occasioni di riflessione, a ogni latitudine della terra, confidando che possano diventare ponti. «Avete fatto di tutto per seppellirci / Avete dimenticato che eravamo semi» (Dinos Christianopoulos, The body and the wormwood, 1978). Laddove la difesa dei diritti della terra è contenuta nell’Agenda ONU 2030, la difesa del diritto alla terra, sancita in più punti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo1, si muove in Carsten Höller attraverso l’indagine del Doppio, in opere come The Double Club (2008-2009, nightclub londinese che mette in dialogo nel cibo, nella musica e nel design la cultura congolese con quella occidentale); Double Carousel with Zöllner Stripes (2011, due giostre degli anni ’50, La Regina del Volo di Belluno e Ciapa Ciapa di Reggio Calabria, in movimento opposto ed estremamente lento per permetterne in ogni momento la fruizione, immerse nell’illusione ottica delle Strisce di Zöllner e sormontate da un video del 2011, Alone (Twins on Double Carousel with Zöllner Stripes), in cui cinquanta coppie di gemelli omozigoti salgono e scendono dalle giostre); Fara Fara (2014, videoinstallazione a due canali, “faccia a faccia” in Lingala, documentario volutamente incompiuto sul soundclash, sfida musicale congolese di due gruppi dal vivo che mobilita per tempi lunghissimi decine di migliaia di persone). La presenza pacifica del Doppio porta ancora una volta in luce quanto più etica, rispettosa e libera sia la coesistenza piuttosto che l’ibridazione, il che si ricollega non solo come diritto della terra al bisogno di proteggere la biodiversità, ma anche, come diritto alla terra, alla necessità di pace fra i popoli. In Carsten Höller il topos del Doppio è stato una sorta di imprinting. «Sono cresciuto in Belgio, e il Belgio ha una situazione complessa perché, prima di tutto, è un Paese molto giovane. È solo dalla fine del XIX secolo che esiste un Belgio. Una terra che, nei fatti, è un compromesso. Ci sono due gruppi linguistici principali – o meglio, tre – che culturalmente, però, non si incastrano. �uindi per me il Belgio è un enorme Double Club, che nasce proprio da un'idea come questa e che uso molto nel mio lavoro: hai due parti che in qualche modo sono simili perché appartengono alla stessa grande entità, ma poi sono anche uniche, e quando le mettiamo insieme in qualche modo si scontrano, ma è uno scontro fertile». La parola che usa Carsten Höller per riferirsi a questo scontro fertile è clash, facendomi venire in mente non soltanto le immortali note punk di Should I stay or should I go, ma anche quell’idea di iconoclash battezzata nel 2002 da Bruno Latour per riferirsi alla pratica artistica contemporanea di produzione e distruzione di immagini, capace in realtà di generare un’incredibile fonte di nuove immagini, nuove strategie, nuove lingue, come per l’arte contemporanea africana di cui parlavamo prima. In questo senso, continua Höller, «Da bambino vedevo i vicini a sinistra che parlavano fiammingo, e i vicini a destra che parlavano francese. E noi, a casa, parlavamo tedesco. Per questo pensavo che in ogni casa si parlasse una lingua diversa – il che sarebbe splendido. E invece in Belgio ci sono tanti problemi a causa di questo mancato incastro, e l’unico elemento che realmente cerca di tenere tutto insieme è la terra. Poi però penso anche: “D’accordo, ci sono alcuni problemi, ma c'è anche un grandissimo, doppio, triplo potenziale”. C'è qualcosa di molto bello nel non rassegnarsi all’allineamento. Forse è una parola grossa, ma io ci leggo una grande forma di libertà. E invece di limitarsi a compianti vari, si dovrebbe guardare piuttosto alle infinite possibilità che si basano sulla non-omogeneità, su ciò che non si adatta, che non si allinea, sulla differenza delle parti. Il Belgio, il Double Club, il Fara Fara, persino i miei Giant Triple Mushrooms hanno molto a che fare con questa idea di unicità, stando lì insieme e occupando lo stesso posto senza pretese di ibridazione, senza smanie di contenimento o di assimilazione ma, semplicemente, condividendo». Ubuntu, allora, è la parola. �uel senso profondo dell’essere umani che si realizza solo condividendo, quella filosofia che si è fatta pratica in Nelson Mandela e in Desmond Tutu, resa arte da Miles Davis e Marcus Miller (Tutu, 1986). �uel profondo senso di appartenenza alla terra, non a una circoscritta terra delimitata dall’imposizione violenta, con l’inchiostro o a colpi di arma, di un confine. (NdR: qui in Sud Italia, per chiederti chi siano i tuoi genitori, gli anziani ti domandano a cu appartenisi, a chi appartieni. Traslare verso l’ecocentrismo significa agire come se l’unica risposta possibile sia, finalmente, «Alla terra») Avendo fatto della sua casa tanto la Svezia quanto il Ghana, anche il senso di appartenenza in Carsten Höller è amplificato, «e non sai veramente perché, perché non si tratta soltanto di temperatura, o di odori. È una parte di te che, molto semplicemente, o è chiusa o è spalancata. Mi è sempre piaciuta l’idea che tu non debba mai ridurti soltanto a uno; in qualche modo, e in un senso molto più nobile rispetto all’uso che il senso comune fa di questa espressione, dovremmo essere tutti doppiogiochisti nelle nostre vite. Il doppio gioco è una figura che mi attira molto – come quelle storie di spie russe che in realtà sono anche spie americane – perché ti dà la possibilità di sperimentare nuove cose non soltanto una volta, ma almeno due. Ci siamo affannati per produrre una cultura lineare, in qualche modo consequenziale, ma se riesci ad assumere forme diverse trovandoti su terre diverse, sapendoti mettere in discussione, questo è di per sé uno statement molto forte. Non è dialettica ciò che intendo, non si tratta di una soluzione tra due in forma di tesi/antitesi/sintesi; si tratta proprio di dividere te stesso in diverse unità coesistenti, una occidentale, l’altra africana. Si tratta di far saltare in aria un modello di sviluppo lineare che ha ormai mostrato la corda. È questa, per me, la vera natura del progresso». Su una terra ultracollegata e surriscaldata, non liquefarsi per la smania di volere tutto è il primo passo per poter essere ancora qualcosa. È la lezione dell’importanza della biodiversità. L’est/etica di Carsten Höller è la dimostrazione che arte e terra nutrono un rapporto di scambio osmotico. In fondo, una delle materie predilette dall’arte è la terra. Terra come soggetto, protagonista della corrente artistica della Land Art. (NdR: il vero gesto della Land Art è a mio avviso quello di un uomo inginocchiato a terra, Jean Dubuffet, che premeva la carta inchiostrata sul suolo per ricordarne le rughe nei suoi Phénomènes, ciclo di 324 litografie composte tra il 1958 e il 1960. È quello di Hussein Chalayan che nel 1993, per il progetto della sua tesi di laurea The tangent flows, presentò una collezione di abiti in tessuto organico da lui disegnati, prodotti e seppelliti sotto terra per tre mesi, canto del suolo come forza rigenerativa. Il vero gesto della Land Art, come in tutta l’opera di Carsten Höller, è quello di studiare la terra per comprenderla appieno e, attraverso la potenza dell’immaginario, darle finalmente voce) Terra come oggetto, come mezzo originario, perché è innanzitutto dalla terra cotta che nasce una delle più iconiche forme d’arte: la scultura. E terra come diritto, terra che del diritto è madre, dal momento che la stessa istituzione giuridica del diritto nasce da un uomo che la delimita, proclamando quell’appezzamento come suo e dando origine alla proprietà privata. Ma è chiaro ormai che occorre ripensare tutto. Compito dell’arte nella difesa della terra è bonificare il pensiero, gravemente inquinato da una smania di progresso titanico e feroce, per riconsegnare un suolo libero di accogliere i semi generati dal paradigma ecocentrico. Un paradigma che è salvezza, il cui simbolo è uno strano fungo. 1 Art. 6: «Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica»; Art. 13: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro ogni Stato»; Art. 14: «Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni»; Art. 15: «Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza». un grazie affettuoso a Silvia Pichini, responsabile della comunicazione di Galleria Continua
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