96 97 economy, quella delle silver generations, coloro i quali stanno andando verso un'età più avanzata e fuoriescono dalla parte di vita produttivamente più rilevante; non per questo dobbiamo uscire da una logica di reciprocità inter- e trans-generazionale. Insomma, l’intergenerazionalità non si misura soltanto verso le generazioni future, ma anche verso quelle che stanno accanto e dietro di noi, dal punto di vista della generatività». Adesso mi accorgo, con una certa curiosità, che si tratta chiaramente di un discorso di filosofia morale. «Forse abbiamo bisogno di dare più spazio a questa parola difficile, morale, che viene usata male e fraintesa. Si fa molta retorica della morale. Però c'è un modo di rimettere al centro la morale che non passa dagli slogan sulla famiglia/non-famiglia; c’è un modo di riportare questo senso di morale al centro del dibattito. Io penso sia fondamentale tornare alle origini di chi ha pensato la filosofia come impresa per la polis. Platone pensava la filosofia come per la città, cioè la pensava esattamente come politica – ricordando che la radice di politica è “polis”, città, ovvero la coestensione di quello che per l'epoca era lo spazio giuridico. �uell'epoca è un momento germinativo in cui troviamo in un unico crogiolo sia la morale, che la politica, che l'idea germinativa del diritto». «Ora, da questo punto di vista, che cosa possiamo trovare? Io credo che possiamo trovare una serie di rinnovate possibilità di rimettere la morale al centro. Io insegno Filosofia Morale. E la prima cosa che dico ai miei studenti quando entro in classe è: “Signore e signori, siamo qui per parlare di filosofia morale, ma non pensate che la filosofia morale ci aiuti a diventar più buoni, brave ragazze e bravi ragazzi. Non ci interessa fare un buonismo à la carte, o a piccoli fascicoli che si distribuiscono, che rileghiamo e che, quando abbiamo finito, mettiamo nel nostro miglior scaffale e lasciamo lì. No, la filosofia morale ci aiuta a diventare migliori argomentatori, cioè a fare qualcosa di terribilmente antico, ma tremendamente contemporaneo e a ogni istanza problematico: dare ragioni e motivazioni al nostro agire, al nostro fare o al nostro evitare di fare”». «�uindi, possiamo rimettere al centro la filosofia morale ridandole lo spazio che ha sempre avuto nell'antichità: quello del discorso pubblico, cioè aperto a tutti e disponibile a confrontarsi con ogni opinione pur mantenendo un grandissimo punto originario: dobbiamo essere argomentatori autentici, onesti. Se io ho ragione, lei deve potermi dire che ce l'ho; se lei ha ragione, io devo poter consentire sul fatto che mi ha dato una ragione migliore della mia. Se dopo una discussione ci lasciamo dicendo “�uesta è la tua opinione, io ne ho un'altra”, ma tu non sei riuscito a dimostrarmela, beh, tu sei un cattivo argomentatore, perché nonostante io ti abbia dimostrato la bontà della mia e la minore bontà della tua, tu non sei riuscito ad ammettere che la tua dovrebbe essere abbandonata. Ma noi siamo figli e nipoti di persone che non sono state in grado di ammettere di aver torto. Dovremmo iniziare a pensarlo seriamente, a prendere confidenza con questo pensiero. C'è questa difficoltà di dialogo in parallelo tra chi non sa ammettere di avere torto e chi non sa abbandonare la propria comfort zone morale. Diciamo: “Io ho sempre creduto in questo, qui si fa così, qui si è sempre fatto così, perché dovremmo cambiare?”. Ciò vale anche tornando al tema clima, ambiente e sostenibilità. Per esempio, quando è stata introdotta l'idea della raccolta differenziata: “Ma perché dovrei allontanarmi dalla mia comfort zone?”, “Perché lo facciamo noi e non lo fanno gli altri?”, “Se tutti lo facessero, lo farei anch'io”. Ecco, questo tema – che in filosofia morale si chiama principio dell'inefficacia causale individuale – è esattamente una sorta di vorticoso buco nero che apre a profili di inazione, cioè di incapacità di tenere dritta e tesa la nostra motivazione rispetto al risultato della sostenibilità del contributo minimo al cambiamento. �uesto è l'altro profilo che noi studiamo, quello che io chiamo il motivational gap, l'interruzione della tenuta motivazionale». Nessuna scelta, però, nessuna decisione è esente da rischi di tensione, che siano guerre tra ricchi o tra poveri non importa… «Il potenziale conflitto tra generazioni, classi o bisogni sociali è un tema, e dobbiamo pensare molto profondamente a questa partita di conflitto e potenziale rispetto al tema dei savings, del fare passi indietro riguardo al consumo di risorse naturali. E qui si crea quello che si può chiamare il costo della sostenibilità – ma anche il cortocircuito della sostenibilità, vorrei dire, e della responsabilità: è il pericolo del “Tocca sempre a qualcun altro”, quello che in filosofia morale o politica si chiama conflitto noi/loro, o conflitto io/tu. Perché noi giovani dovremmo risparmiare quando loro, le generazioni precedenti, hanno consumato tutto quello che potevano? Abbiamo sempre pensato che l'etica sia un'abitudine che afferisce al passato, ma in realtà afferisce al futuro, rilanciandolo nei temi che abbiamo appena detto. Si crea quindi un conflitto intergenerazionale tra vecchi e giovani, o tra poveri e ricchi. Dobbiamo pensare che la transizione ecologica ha dei costi che potrebbero dividere ulteriormente, che separano chi può permettersi la transizione da chi non può. Chi può permettersi di passare all'Euro 5, all'Euro 6, all'Euro 8, all'elettrico, e chi è costretto a scaldarsi bruciando bottiglie di PET che producono una fiamma a poco calore e moltissima diossina. �uindi si rinnova continuamente questo conflitto non solo tra vecchi e giovani, e tra ricchi e poveri, ma anche all'interno delle stesse generazioni tra giovani ricchi e giovani poveri, tra anziani ricchi e anziani poveri, tra localizzazioni diverse di questo duplice conflitto, in qualche Nord e in qualche Sud del mondo». «Io credo che il tema, allora, non sia tanto quello di aspettare che tutti facciano il loro, ma che ciascuno faccia il proprio. La logica non dovrebbe essere quella di attendere reciprocità, per tornare ai punti da cui siamo partiti, bensì di generarla, di dire “Se posso, devo”. E qualcuno potrà seguire, ma non devo aspettare che ogni altro si convinca di poterlo fare, per poterlo poi fare anch'io. Tutto ciò rimanda a un tema di responsabilità individuale che credo vada ancora, e ulteriormente, riportato nell'organizzazione del dibattito pubblico». Ho la sensazione che il professor Pirni stia provando a costruire l'idea di un circolo virtuoso, la possibilità di un meccanismo etico che scardini un sistema che da troppo tempo procede con una sorta di pilota automatico verso una prospettiva che possiamo solo definire, in ultima analisi, di autodistruzione. «Non dobbiamo smettere di parlare, ma soprattutto non dobbiamo pensare di poter parlare solo ai “credenti”, cioè solo a chi è già nelle chiese della sostenibilità, solo a chi già pensa che questa partita sia degna di essere fatta, e ha “solo” bisogno di essere rafforzato nella sua motivazione. Dobbiamo invece, se posso usare questa parola, andare a parlare fuori dalle chiese, provare non dico a evangelizzare (perché quella è una partita molto più alta e altra), ma a diffondere questo messaggio a chi di per sé sarebbe portato a non considerarlo tra le opzioni possibili del proprio comportamento. È una sfida rilevantissima che spero che la filosofia possa interpretare, sicuramente non da sola, ma il meta-convincimento che dobbiamo avere è che nessuno può farcela da solo, nessuno può pensare di percorrere questa strada senza gli altri». Il taxi è arrivato. Mi sono seduto sull'aereo e ho aspettato il decollo. Dall'alto la Laguna sembra ancora più viva. Si mostra in tutta la sua complessità e articolazione. Vorrei che i miei figli la vedessero e la vivessero anche loro così – suolo emerso e sommerso, ma ancora vivo – in uno dei nostri futuri che stiamo scrivendo da ieri.
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